«Mamma, secondo te per Gesù è più facile far resuscitare Lazzaro o guarire un bimbo dal neuroblastoma?». L’amaro quesito della piccola grande Giulia, angioletto che lasciò questa terra quando aveva appena otto anni e mezzo, vittima di un male tanto feroce, riecheggia ancora all’orecchio della biologa Anna Maria Alfani, professoressa di Matematica e fondatrice e presidente di OPEN ODV, che ogni giorno convive con l’indicibile strazio di chi ha perduto una figlia. Chi dice addio a un compagno è vedovo, chi saluta per l’ultima volta un genitore è orfano, ma non ci sono parole adatte a definire un dolore tanto innaturale.
Neuroblastoma Day: una rete mondiale contro il mostro
È il motivo che induce associazioni del calibro di OPEN ODV a raccogliere fondi da destinare alla ricerca, così da affilare le armi per debellare il mostro, e a promuovere iniziative volte a sensibilizzare la popolazione e, soprattutto, le istituzioni. Intento dell’International Neuroblastoma Awareness Day, la giornata mondiale organizzata dai volontari statunitensi di Shir for Life: il 5 dicembre, il globo intero può seguire il webinar, favorito dall’associazione americana, nel corso del quale luminari di fama internazionale accendono i riflettori sull’efferato male. Iniziativa rilanciata in Italia da OPEN ODV.
Presidente Alfani, cos’è il Neuroblastoma Day?
«Il Neuroblastoma Day è una giornata mondiale che serve a ricordare o a far conoscere a chiunque l’esistenza di questa malattia, uno dei tumori più aggressivi dell’età pediatrica. Il neuroblastoma presenta ancora prognosi assai infauste, specie quando è al IV stadio: in quel caso il rischio è altissimo».
Di che rischio parliamo?
«Per dare un ordine d’idee, mentre per gli altri tipi di tumori, per esempio le leucemie, si è arrivati anche a percentuali di guarigione dell’80 per cento, in questo genere di neuroblastoma ci si attesta tra il 20 e il 30 per cento. Insomma, la maggior parte dei bambini non ce la fa. Far sì che la popolazione mondiale si concentri su questo male, insomma, serve a sensibilizzare anche le istituzioni, affinché riservino maggiore attenzione alla malattia e, di conseguenza, lavorino per destinare più fondi alla ricerca».
Con OPEN ODV fate la vostra parte, con Buonissimi e non solo…
«Sì, come associazione di volontariato ci diamo da fare, ma non siamo una di quelle grandi organizzazioni sovvenzionate, che beneficiano anche d’importanti trasmissioni televisive nazionali o di appelli volti a raccogliere più offerte con campagne come il 5×1000. Per quanto importante, il nostro contributo non è sufficiente. Ad ogni modo, pochi giorni fa, insieme a un’altra associazione che pure si occupa di neuroblastoma (Fondazione italiana per la lotta al neuroblastoma onlus), abbiamo finanziato cinque progetti di ricerca: due riguardano più centri, gli altri tre sono monocentrici, focalizzati sul Gaslini di Genova. In termini economici, si tratta di un impegno superiore al milione di euro, frutto delle campagne di Natale e di Pasqua. E già stiamo sovvenzionando alcuni studi attraverso il CEINGE – Biotecnologie avanzate di Napoli: progetti che si avvalgono anche di collaborazioni internazionali. Il Neuroblastoma Day, d’altronde, parte dall’America: una rete internazionale, nella quale OPEN è parte attiva grazie ai ricercatori, che intessono contatti con colleghi d’ogni parte della terra».
E la risposta delle istituzioni non è ancora soddisfacente?
«No. Eppure, nel Piano oncologico nazionale, nella sezione delle malattie pediatriche che vanno indagate più doviziosamente vengono indicati il neuroblastoma, il sarcoma e il tumore cerebrale: si tratta delle tre categorie che ancora presentano risicatissime percentuali di sopravvivenza. Il Governo, quindi, ha riconosciuto che bisogna insistere maggiormente su queste patologie, però non ha agito di conseguenza: non ha investito maggiori risorse. Come FIAGOP (Federazione italiana associazioni genitori e guariti oncoematologia pediatrica, rete alla quale aderisce OPEN ODV) il 15 febbraio di ogni anno organizziamo la Giornata mondiale contro il cancro infantile, in quel caso in tutte le sue forme. Promuoviamo convegni con esperti internazionali della patologia, e lo facciamo alla presenza di forze istituzionali e politiche. L’anno scorso siamo stati a Palazzo Montecitorio, nella Sala della Regina. Siccome la sanità è perlopiù di competenza regionale, la Vicepresidenza della Camera ha invitato tutti i governatori a partecipare: nessuno ha risposto. La sensibilità delle istituzioni è bassissima».
Un’indifferenza che potrebbe abbattere o fortificare…
«Per quanto mi riguarda, ci fortifica. Ovviamente, però, provoca in noi pure profonda indignazione. Non è possibile che chi amministra sia così sordo. In diverse occasioni mi capita di parlare con un presidente di giunta regionale: in quei momenti, lui mi dice “Facciamo questa cosa, facciamo quell’altra cosa…”, ma poi non si fa niente. L’amara verità è che di questi bambini non interessa nulla a nessuno».
Qual è il motivo?
«Generalmente, tutti i tumori solidi sono considerati malattie rare e, in termini assoluti, i bambini sono pochi rispetto agli adulti, quindi non fanno gola alle industrie farmaceutiche che investono nella ricerca. Per il neuroblastoma, per esempio, utilizziamo farmaci per adulti, perché di specifici per i bambini non ce ne sono. Insomma, mentre l’immunoterapia per gli adulti oggi è una pratica diffusa, per i bambini non è neppure stata messa ancora a punto. Le industrie non hanno alcun interesse».
Iniziative come il Neuroblastoma Day servono proprio a questo, quindi?
«Il Neuroblastoma Day e tutti gli altri movimenti mondiali sono un urlo. È per ricordare alle persone che queste malattie esistono e che si muore. Associazioni più celebri, che si dedicano ad altro, beneficiano di patrocini e sponsor importanti, mentre questi bambini sono morti silenti. D’anno in anno, in Italia, insorgono circa 1.500 nuovi casi nella fascia d’età pediatrica e 900 in quella tra i 12 e i 18 anni: ogni 12 mesi, registriamo 240 vittime. È come se dieci pullman da 24 posti ciascuno precipitassero da un viadotto: l’opinione pubblica, a ragion veduta, in quel caso s’indignerebbe. Il neuroblastoma sortisce gli stessi effetti, ma nel silenzio assordante di tutti».
Lei è la mamma di Giulia: quanto conta l’esperienza personale in questa battaglia?
«Tantissimo. Io ho reagito alla tragedia rimboccandomi le maniche e dicendo: “Bisogna fare qualcosa per questa malattia, per questi bambini”. Le direttrici sono due: la ricerca, per evitare che i bimbi continuino ad ammalarsi, e l’assistenza, da assicurare a tutti i piccoli colpiti, che hanno bisogno di sostegno e di accompagnamento. La reazione, ovviamente, è diversa per ognuno: ci sono pure genitori che si chiudono in sé stessi, che non vogliono sapere più nulla di questo mondo. Finché c’è la malattia, invece, c’è sempre la speranza che tuo figlio ce la possa fare. Al dolore, però, si reagisce nelle maniere più disparate. In tutti questi anni ho conosciuto tantissimi genitori: ce ne sono moltissimi come me, combattivi e pronti ad adoperarsi affinché ciò che ha vissuto il proprio figlio non tocchi ad altri. Tantissimi, invece, si chiudono nel loro dolore, nella loro famiglia».
Dicono che battaglie simili facciano rivivere chi non c’è più: lei cosa ne pensa?
«Io non lo so se Giulia rivive. Di sicuro io faccio tutto pensando sempre a lei, sperando che sia orgogliosa di me, di quello che faccio, del mio impegno per tutti i bambini, perché è ciò che lei avrebbe voluto. Una volta mi chiese: «Mamma, secondo te per Gesù è più facile far resuscitare Lazzaro o guarire un bimbo dal neuroblastoma?». Aveva otto anni e mezzo. Era una bambina molto intelligente. Lo sono tutti i piccoli ammalati: è come se sviluppassero altre doti. Diventano bambini-adulti. Io li chiamo “bambini-vecchietti”: sono saggi e riflessivi, pur essendo allegri. Se si entra in un reparto di Oncologia pediatrica, si odono le risate e il chiasso: è come entrare in una scuola. Quando non provano dolore fisico, d’altronde, i bambini dimenticano la malattia. Diversamente dagli adulti, loro hanno grandissime capacità d’adattamento, non sono depressi. È un mondo a parte, il loro. Io spero che Giulia sia fiera di me. Ho voluto che l’associazione si chiamasse Open (Oncologia Pediatrica e neuroblastoma), e non le ho dato il nome di miglia figlia, perché volevo che tutti i genitori se ne sentissero parte, che ne fossero protagonisti, che sentissero di fare ogni cosa per il proprio figlio. Perché tutto è all’insegna della memoria, della continuità, del ricordo. Perché, finché c’è ricordo, c’è vita».
E finché c’è lotta c’è speranza: di qui a cinque anni, in che modo sogna che il mondo cambi grazie a queste battaglie?
«Le ricerche che stiamo finanziando sono tutte volte a sviluppare terapie personalizzate. Con la genetica, oggi si riesce ad analizzare il tumore del singolo paziente e a trovare la cura più adatta per quel tipo di mutazione e assetto. Il mio sogno, il nostro sogno, è sviluppare terapie che siano mirate, e non più un protocollo uguale per tutti. Ogni bambino con la sua medicina e con la sua cura: sarebbe molto più efficace per la guarigione e assai meno dannoso sul piano degli effetti collaterali. Medicina di precisione e personalizzata: sono il fulcro degli ultimi progetti che stiamo finanziando. Solo così sempre più bambini ce la faranno».
Qualche buona notizia è già arrivata…«Pochi mesi fa, in America, al St. Jude’s Children Research Hospital, c’era una bambina con un neuroblastoma al IV stadio recidivante: nessuna terapia aveva sortito effetto. Tra le prime ricerche che OPEN ODV ha finanziato quasi vent’anni fa, però, ce n’era una del CEINGE di Napoli che nel 2009 portò a scoprire delle mutazioni del gene BARD1 strettamente correlate all’evolversi della malattia: la bimba che era al St. Jude aveva proprio questa mutazione. Gli effetti positivi potevano essere determinati da una specifica cura, scoperta proprio grazie a quella ricerca. Il risultato: la bimba è rimasta senza malattia per 32 mesi. La ricerca non è la lampadina che si accende sulla testa di Archimede: è un lavoro continuo, giornaliero. I computer hanno accelerato la conoscenza della genetica, fornendo un’ingente quantità di dati. La speranza c’è. Ed è fondata, non è campata in aria. Se continuiamo a farlo è perché ci riusciremo: ne siamo convinti».